Articolo di Laura Magna – Industria Italiana: L’ Italia sconta un gap negativo tra capacità dei lavoratori e necessità del mercato non solo nel settore ICT, ma anche nelle professioni tradizionali e in generale nella cultura digitale diffusa. È ora di darsi una mossa. Rinnovare i percorsi scolastici ed universitari, riconvertire gli skills di chi già lavora sono solo due delle proposte di Marco Gay, presidente di Anitec-Assinform.
Se analogamente ai mondiali di calcio ci fosse un mondiale delle competenze digitali, allora, come è successo alla nostra nazionale, il Paese non supererebbe le fasi di qualificazione. Sì, perché per competenze digitali gli italiani in Europa fanno solamente meglio di greci, bulgari e rumeni. E l’Italia è la seconda manifattura europea. Eppure la previsione è che oltre il 60% delle posizioni di lavoro disponibili nell’industria sarà occupato in futuro da chi di competenze digitali sia dotato. E non parliamo solo di settori come l’ITC: «Qualsiasi professione, in qualsiasi comparto, a qualsiasi livello, in ogni ambito esiste la necessità di essere attrezzati con competenze digitali, che sono necessarie per agganciare le potenzialità di industria 4.0 e per concretizzare generalmente la cittadinanza digitale».
A dirlo è Marco Gay, da aprile presidente di Anitec-Assinform, l’Associazione delle Aziende di Information Technology e dell’Elettronica di Consumo, aderente a Confindustria. Gay è anche socio fondatore della Federazione Confindustria Digitale e ha guidato per tre anni i Giovani Imprenditori di Confindustria, rendendoli protagonisti del dibattito politico economico nazionale. Il settore che annovera le imprese di Anitec-Assinform, 192aziende che producono un fatturato complessivo di più di 12 miliardi di euro e che occupano oltre 44.000 addetti, rappresenta un’industria vitale per il nostro sistema Paese, e sempre di più lo sarà in vista della digital transformation e del dispiegamento delle potenzialità di Industry 4.0. Questa è la posta in gioco.
Con Gay, che è anche ad dell’acceleratore di start up e imprese Digital Magics, quindi un innovatore per definizione, Industria Italiana ha parlato del perché gli e-skill siano cruciali in questo momento storico e di come si può ridurre il preoccupante divario tra domanda e offerta, delineato dai numeri cui accennavamo in apertura. Partiamo proprio dai numeri, allora. I primi arrivano dall’Osservatorio sulle competenze digitali, condotto da Anitec Assinform con AICA, Assintel e con il supporto di CFMT, Confcommercio, Confindustria e in collaborazione con MIUR e AGID.
L’indice di pervasività del digitale, termometro delle necessità generali
«Con la quarta edizione dell’Osservatorio abbiamo gettato il cuore oltre l’ostacolo.- dice Gay- Abbiamo analizzato quasi 600mila annunci di ricerca di personale via web relative a 239 figure professionali con particolare riferimento alla manifattura nella meccanica e nel fashion, al piccolo commercio al dettaglio nella moda, all’hospitality (alberghi-ristorazione) e al settore pubblico: abbiamo cioè esteso l’indagine a tutte le professioni e non limitato lo sguardo solo a quelle “nuove” che nascono in ambito ITC come negli anni passati. I risultati sono come uno schiaffo in faccia», dice Gay. L’analisi dei big data ha portato alla piena luce infatti una verità forse prima sottovalutata: «ha rivelato la pervasività del digitale: lo studio conferma che non è più sufficiente preoccuparsi di cosa serve alle aziende in termini di nuovi specialisti ITC, ma bisogna estendere l’attenzione alle professioni tradizionali. In tutte esiste, più o meno, la necessità di avere skill digitali. Lo abbiamo chiamato indice di pervasività del digitale (DSR): ha un’incidenza media del 13,8%, con punte che sfiorano il 63% per le competenze digitali specialistiche nelle aree “core” di industria e il 41% nei servizi. Numeri che ci mettono di fronte a una sfida: soddisfare la domanda che arriva dal mercato, sia rinnovando i percorsi scolastici ed universitari, sia riconvertendo gli skill di chi già lavora».
Skill di base e skill avanzati
Più nel dettaglio, secondo l’Osservatorio, gli skill digitali di base pesano per il 41% nell’Industria, per il 49% nei Servizi e il 54% nel Commercio; gli Applicativi per il 40% nell’Industria, il 25% nei Servizi e il 21% nel Commercio; quelli di Brokeraggio per il 12% nell’Industria, il 16% nei Servizi e il 20% nel Commercio; quelli Tecnici ICT per il 7%nell’industria, il 10% nei Servizi e il 4% del Commercio. Separando gli skill di base dagli altri, definiti come skill avanzati, si nota come la domanda di skill di base prevalga solo nel Commercio, mentre nell’Industria e nei Servizi prevalgono gli skill avanzati, visti come fattori di una più evoluta professionalità. E questo si accentua per le attività più tipiche dell’azienda (Core) ove la rilevanza media degli skill avanzati sale al 63% nell’industria e al 41% nei Servizi.
«Non solo. L’Osservatorio ha trovato una correlazione forte tra skill digitali e soft skill, quelle abilità meno codificabili che vanno dall’apertura al cambiamento, al problem solving, al team working, al pensiero creativo, alla capacità di parlare in pubblico, di gestire il tempo e di comunicare con i clienti. La presenza di soft skill è infatti uguale o maggiore rispetto alla media di settore nelle professioni con l’indice medio di pervasività digitale più elevato, con rispettivamente 35% nel Commercio, 36% nei Servizi e 35% nell’Industria», spiega Gay, evidenziando il legame, imprescindibile, tra uomo e macchine nel mondo del lavoro attuale.
Il ritardo italiano è anche continentale
Dunque, le imprese cercano esperti che maneggino agilmente le abilità digitali (e le soft skill). Ma la ricerca è tutt’altro che facile. Il perché sta ancora nei numeri. In particolare nel Digital economy and society Index (DESI), l’indice che misura il livello di competenze digitali nei Paesi dell’Unione. Nel 2018 l’Italia si è piazzata quartultima, seguita da Bulgaria, Grecia. E la posizione in classifica non cambia, sia che si guardi alle competenze di base sia che si guardi a quelle specialistiche. Dati per molti versi agghiaccianti : nel 2017 oltre il 20% delle popolazione italiana non aveva mai effettuato un accesso a Internet, un pò meglio del 25% del 2016 ma ancora un livello di guardia .
Se Sparta piange Atene non ride: sempre secondo il DESI, nel 2017, ben il 43% della popolazione dell’Ue non aveva sufficienti skill digital e il 17% non ne aveva affatto – è più o meno la quota di coloro che non usano la rete.- Inoltre, il10% della forza lavoro europea non aveva alcuna e-skill (una quota coincidente con quella dei non internauti) e il 35% non possedeva neppure le skill di base richieste per la maggior parte delle posizioni. I dati non sono disponibili per l’Italia, ma possiamo immaginare che i numeri siano simili a quelli della Grecia, ovvero il Paese subito dopo di noi nella classifica; possiamo ipotizzare livelli rispettivamente superiori al 50% per la popolazione con skill digitali insufficienti e al 30% per la forza lavoro senza nessuna competenza nel settore.
La seconda manifattura europea non può restare così indietro
«Su questo si deve fare una riflessione profonda- dice Gay -: in un mondo in fase di radicale cambiamento e in cui l’innovazione tecnologica è necessaria, l’Italia che è la seconda manifattura europea non può essere così indietro sulle competenze digitali, 24esima. Bisogna far aderire i due dati: salire di molto nella classifica del Desi, perché il divario non è accettabile. Se non lo facciamo, se non guadagnano posizioni in quella classifica il rischio è che si scenda, e di molto, nell’altra. E non possiamo permettercelo», afferma Gay. Le soluzioni sono diverse, ma senza dubbio il nostro Paese ha bisogno di definire rapidamente una strategia di sviluppo delle competenze che incentivi la produttività e l’economia.
Lo spiega l’OCSE nel report “Skill for a Digital World”: «promuovere la diffusione delle tecnologie digitali è essenziale per aumentare la produttività. In ogni caso, l’adozione richiede di essere accompagnata da un appropriato sviluppo di competenze per abilitare il loro uso effettivo. In generale e in media, solo un quarto dei lavoratori usa quotidianamente software da ufficio (software di elaborazione testi o fogli di calcolo). Di questi, secondo l’Indagine sulle competenze degli adulti (PIAAC) oltre il 40% potrebbe non farne un utilizzo efficiente. C’è anche un gap di genere nell’uso di ITC e nell’accesso a Internet che penalizza le donne. In ogni caso alcune aziende riportano difficoltà a reperite specialisti ITC con gli skill adeguati».
Per tornare all’Italia, alla carenza di competenze digitali si aggiunge una generale inadeguatezza delle competenze di base: il PIAAC (il già citato indice delle competenze degli adulti) relativo al nostro Paese è sconcertante: «solo il 3,3%degli adulti italiani raggiunge livelli di competenza linguistica 4 o 5 – i più alti – contro l’11,8% nella media dei 24paesi partecipanti e il 22,6% in Giappone, il paese in testa alla classifica. Inoltre, solo il 26,4% raggiunge il livello 3 di competenza linguistica. Per quanto riguarda le competenze matematiche, solo il 4,5% degli adulti italiani ha competenze di livello 4 o superiori», scrive l’Ocse . Un dato importante perché è ciò che intrappola l’Italia «in un low-skills equilibrium, un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese», si legge nel report Ocse “Strategia per le competenze” dedicato al nostro Paese. Insomma, siamo di fronte a un’emergenza non più differibile. A cui si fa fronte con la formazione, non solo scolastica. Secondo le stime di Confcooperative, «in Italia solo l’8,3% dei lavoratori sono impegnati in programmi di formazione permanente, al di sotto della media europea 10,8%. Dobbiamo fare molto di più. Formare non è una spesa, ma un investimento sul futuro del Paese».
Gli incentivi Impresa 4.0: una strada da continuare a percorrere
«Sì, è esattamente così: per questo gli incentivi alla formazione introdotti con Impresa 4.0 sono un ottimo punto di partenza da cui intensificare l’attività. – dice Gay – Nel secondo pacchetto per lo sviluppo del Paese l’ex ministro Carlo Calenda ha infatti sancito il credito di imposta al 40% per le imprese che investono in formazione in maniera incrementale e il potenziamento degli ITS, gli istituti di formazione terziaria alternativi all’Università, altro punto debole del nostro sistema di istruzione», ricorda Gay che è convinto «che il nuovo esecutivo proseguirà nel solco della formazione: c’è un passaggio del contratto di governo che riguarda l’intensificazione delle competenze digitali. L’auspicio degli imprenditori e mio, in quanto rappresentante di Anitec Assinform è che quello che c’è e che funziona, ovvero le misure del 4.0, vengano potenziate e se possibile rese ancora più ricche di investimenti per esempio nella parte relativa alle start up, le imprese che sono il vero motore del cambiamento dell’industria».
Gay: quattro step verso l’acquisizione delle competenze digitali
Gay, sulla base dei dati dell’Osservatorio, ha anche una lista di suggerimenti: «posto che il digitale è una componente indispensabile e sempre più importante in tutti i mestieri, nuovi e di sempre, è importante che tutti possano adeguare e arricchire il portafoglio di conoscenze e competenze, così come anche è importante che le aziende possano reperire profili sempre più aggiornati in chiave digitale». A questo riguardo, esistono almeno quattro pilastri su cui impostare nuove iniziative e rafforzare quelle già esistenti: «il primo consiste nel rinnovare i percorsi di formazione in ottica digitale a tutti i livelli: dalla scuola secondaria all’università, dalla riconversione professionale alla formazione del management», spiega il presidente di Anitec Assinform: «è necessario poi ridurre l’eterogeneità nella domanda di competenze digitali nelle professioni, a livello settoriale, funzionale o territoriale per semplificare il sistema; ancora, dobbiamo sostenere la piena valorizzazione delle opportunità di lavoro legate a competenze digitali non specialistiche, anche nei settori non tecnologici; e spingere le capacità di e-Leadership e change management nei ruoli dirigenziali e in tutte le imprese, perché è il management che deve stimolare l’innovazione. Da lì parte la spinta verso il cambiamento». Un cambiamento che deve essere dunque innanzitutto culturale.
Fonte: Industria Italiana